Come non essere né politici, né civici. Il capolavoro di Roberta Palazzetti

Tanta fatica buttata alle ortiche. La decisione di Proposta Civica di rifiutare l’apparentamento con il centrosinistra di Stefano Biagioli per il secondo turno elettorale ha creato e sta creando molto sconcerto nella grande maggioranza degli elettori che ne hanno fatto, in una manciata di mesi, la terza forza politica di Orvieto. La logica di questa scelta risulta in effetti sfuggente anche perché il risultato finale è quello di anestetizzare il consenso raccolto in un ruolo di opposizione che è stato scelto a priori e che non appariva del tutto scontato nel momento in cui si è invece deciso di gettare la spugna. Si è rinunciato a giocare la partita ancor prima che l’arbitro fischiasse la fine dell’incontro. 

Tralasciando la spiegazione di bassa cucina (ma non irrilevante) delle considerazioni evidentemente svolte sulla futura composizione del gruppo consiliare nelle differenti circostanze, è interessante capire perché un movimento civico capace di prendere il voto di un elettore su cinque abbia invece imboccato la strada rinunciataria di chi si arrende in partenza. Una decisione tanto più incomprensibile se messa in relazione allo spessore professionale di quella Roberta Palazzetti che aveva ed ha il potenziale per essere uno dei protagonisti più importanti della vita pubblica della città degli ultimi anni. Alla base di questa opzione che ha suscitato scontati malumori e maldipancia, c’è l’idea completamente travisata di cosa sia e debba essere il civismo. Un vero movimento civico è quello che basa la propria azione sul tentativo di attuare il proprio programma, senza avere ancoraggi ideologici (ed anzi comprendendo al proprio interno opzioni ideologiche anche contrapposte) in una logica che non è quella dell’appartenenza e dell’obbedienza al sistema dei partiti, ma del rapporto fiduciario con i cittadini. In questa visione, un movimento civico ricerca in ogni circostanza le modalità più adatte per fare l’unica cosa che ha a cuore, ovvero realizzare il programma elettorale.

Nel momento in cui Stefano Biagioli ha offerto a Proposta Civica la possibilità di un accordo basato sulla concessione del vice sindaco e di almeno tre assessorati si era evidentemente di fronte allo scenario possibile per cercare di portare a compimento la propria missione civica, considerando che la politica è sempre condizionata dai rapporti di forza. Aver declinato quella offerta appare dunque incomprensibile a meno che non si tenga conto del concetto di civismo che ha prevalso in questo caso. L’idea cioè del civismo inteso come declinazione qualunquistica dell’anti politica in continuità con una vicenda che, nel caso italiano viene da lontano, più o meno dalla stagione di Tangentopoli e che ha avuto come espressione più recente il grillismo. Il rifiuto di capire che l’essenza della politica è di essere sempre l’arte del possibile e, quindi, la capacità di cercare il miglior compromesso possibile, date le condizioni del contesto in cui ci si trova, per trasformare in realtà la propria visione. L’unica cosa che dovrebbe contare. Nel gruppo di Palazzetti si è  invece imposta l’idea del tutto impolitica di essere portatori di una ipotizzata purezza che è la negazione, al tempo stesso, sia della capacità politica che dell’autentico civismo. Una purezza che non si capisce adesso a cosa serva e che, ancora peggio, contraddice il patto implicito con gli elettori.  Come la storia del bambino che buca il pallone quando capisce di aver perso la partita. In tutto questo ad uscire ammaccata è la leadership di Roberta Palazzetti che è andata in tilt di fronte alla prima vera prova politica, dimostrando di non avere un piano B o perlomeno di non averlo condiviso prima con chi ha accordato fiducia alle due liste civiche. Resta la speranza che il valore di Palazzetti possa essere comunque speso nel modo migliore a favore della comunità e a fronte di una imminente vittoria elettorale di quel centrodestra che non ha (come non ce l’ha avuto il centrosinistra) nessun reale progetto per il futuro di Orvieto, ma ha capacità politica da vendere. La vera questione qui è quella di pensare ad un nuovo modello economico che possa colmare la pesante distruzione di ricchezza prodotta ormai 22 anni fa dalla fine del modello caserme.

Il 45 % degli elettori ha accordato fiducia a chi ha fatto una campagna elettorale da incorniciare, parlando della strada complanare e del turismo come prospettive per i prossimi cinque anni. Come se la costruzione di una strada, progettata due decenni fa e un settore economico da cui dipende meno del 20 % della ricchezza e dei posti di lavoro della città possano rimettere in moto quel meccanismo di attrazione di investimenti pubblici e privati e creazione di lavoro di cui Orvieto ha drammaticamente bisogno. Prima di bucare sdegnosamente il pallone ed estraniarsi dalla lotta si sarebbe dovuto riflettere meglio sulle proprie responsabilità di fronte a questo scenario che riguarda tutti oltre che sulle legittime aspettative dei propri elettori.

A fare la fine del pallone bucato rischia di essere ancora una volta Orvieto mentre Proposta Civica l’ha già fatta due giorni fa.




Tentate soluzioni e imprevisti, meglio cambiare strada

Immaginate di tornare per un attimo bambini e di trovarvi in una di quelle situazioni in cui per mancanza di esperienza avete fatto qualcosa che ha avuto conseguenze inattese e negative. Per esempio, avrete pensato che scrivere un tema lungo cinque pagine e pieno di ripetizioni potesse convincere la maestra a darvi un voto migliore, oppure che il segreto per accendere il fuoco era aggiungere quanta più legna possibile. Adesso che siete adulti ci ridete sopra, ma allora eravate convinti e mal sopportavate i consigli di quanti vi facevano notare che sarebbe stato meglio scrivere meno e con più chiarezza, e che è importante lasciare spazio fra un pezzo di legno e l’altro per permettere all’ossigeno di circolare e facilitare la combustione.

Tornate al presente. Immaginate di trovarvi alla vigilia di elezioni importanti e di sentire addosso tutta la pressione del mondo. Negli ultimi anni avete tappezzato di pannelli pubblicitari gli autobus delle grandi città invitando chiunque a visitare la vostra splendida Orville. Avete pensato che più pubblicità avrebbe necessariamente portato più turisti a visitare i monumenti più importanti. Avete scommesso tutto su questa strategia pensando sinceramente che fosse la soluzione a tutti i problemi della vostra comunità. Ma non è andata come speravate: avete creato una sorta di parco a tema per turisti mordi e fuggi e avete lasciato da parte i guai quotidiani dei cittadini: ospedale, strade, treni, assistenza domiciliare, comunicazioni, svuotamento dei borghi e del centro storico, decoro urbano, lavoro, e via dicendo.

Eppure, volete convincere tutti che siete ancora la persona giusta e allora vi affannate a rincorrere i potenziali vostri elettori con tutti i mezzi che avete a disposizione. Siete già al governo della città e siete consapevoli di non aver fatto quello che promettevate cinque anni prima, allora cominciate a mettere toppe qua e là, a tagliare l’erba, a rifare le strade, a sistemare i lampioni, a farvi vedere nei luoghi di cui avevate dimenticato l’esistenza, e a promettere le stesse cose che non avete realizzato magari inventandovi qualche storiella nuova. Tappezzate tutta la città coi manifesti dei vostri partiti (tanti) e dei candidati più in vista, bussate ad ogni porta, offrite ascolto, porchetta, e vino, e proponete nuove soluzioni. Fate vedere tutto il meglio di cui siete stati capaci e nascondete le cose che non avete saputo fare, nascondete i problemi irrisolti, suggerite a enti ed istituzioni amiche come fare a darvi una mano con annunci e comunicati roboanti che vi mettano in buona luce.

Infine, attaccate i vostri avversari esercitando pressioni di ogni tipo, giocando al tempo stesso a fare le vittime assediate dagli sfascisti. Usate il vostro sarcasmo etichettando come “soloni” chi propone soluzioni diverse dalle vostre, e accusate i cittadini critici di non voler vedere quanto da voi fatto, chissà per quale oscuro motivo. Poi cercate di accogliere sul vostro carro quante più persone possibili, anche quelle che fino a ieri disprezzavate o accusavate di essere la rovina della città. Vi accordate sugli incarichi da spartire per tenere insieme tutti mentre accusate di tradimento quanti hanno deciso che è meglio cambiare strada. D’un tratto vi accorgete che forse avreste meglio ad ascoltare qualche consiglio quando potevate farlo e c’erano persone disposte a lavorare insieme a voi per la città. Adesso è troppo tardi.




Competenza e lavoro per invertire la rotta e coinvolgere tutti in un nuovo modello di città

Le elezioni sono il luogo del dibattito, dei programmi, dei progetti e delle promesse.  Saper leggere tra le righe è esercizio non sempre facile, soprattutto per chi non è avvezzo alla politica, quella con la “p” minuscola, quella delle occhiattacce, delle ritorsioni sciocche, dei post scomposti, delle promessine e delle squadre fortissime che però non vengono mai presentate.  Se non la pensi come il padrone della ferriera, sei un nemico da abbattere, non un avversario da sconfiggere grazie ad un programma più convincente e realistico.

Con gli slogan, gli attacchi, la “caciara” si tenta in ogni modo di distrarre città e cittadini dai problemi reali.  Non va tutto bene, nonostante i commoventi dialoghi teatrali, c’è una città reale con un tasso di povertà che è in costante aumento, un invecchiamento della popolazione che, se da una parte segnala il lavoro eccellente dei medici di famiglia, dall’altra indica che i giovani rimangono al palo e dopo l’adolescenza passata in mezzo al tufo e nelle scuole, sono costretti a partire per studiare prima e per lavorare poi.  E’ un fenomeno che fino a inizio millennio era circoscritto mentre ora è trasversale, non guarda più il censo o il peso familiare in città.  Quelli bravi sono costretti a partire per l’asfittico panorama economico locale.  Non è colpa solo dell’imprenditoria territoriale.  Manca un progetto politico dedicato agli investimenti e un dialogo costante con le principali istituzioni bancarie che hanno come riferimento il territorio: Fondazione Cro e banche che hanno un legame con Orvieto e l’Umbria. 

Ogni progetto senza la gamba finanziaria non si sostiene, non si concretizza, non ha futuro e rientra nei sogni e nella categoria elettorale del “fumo negli occhi”.  E serve poi chi progetta avendo contezza dei costi altrimenti anche i programmi che sembrano realizzabili poi rimangono tristi cattedrali nel deserto che comunque costano alla collettività per la manutenzione, così come è successo troppe volte nel passato anche recente. 

Ha ragione da vendere l’amico Marco Fratini ma per arrivarci serve competenza, conoscenza dei processi economici e finanziari, dei bandi europei, dei sistemi complessi in maniera diretta e non per interposta persona.  Soprattutto serve chi ha capacità e, ancora una volta, competenza per convocare gli attori principali con già delle idee da proporre.  Convocare e promettere tavoli, consulte senza un’idea di partenza è un modo della politica per pulirsi la coscienza e non fare nulla, scaricando la responsabilità su chi partecipa che “non è propositivo”. 

Torniamo alla povertà che è strettamente collegata a uno sviluppo economico mancante, nonostante il mantra “è tutto pieno”, e non basta un gruppo social per risolvere il problema e ripetere all’ossessione “siamo tra la gente”. E’ necessario supportare fattivamente le istituzioni che si occupano di povertà e dei bisogni, quelle riconosciute legalmente, trasparenti e non presenti solo sui social e senza un controllo da parte di organi terzi. 

Per supportare l’economia e aiutare i cittadini in difficoltà il Comune da solo non può e allora ecco che si torna alla proposta dell’amico Marco Fratini (la Fondazione preferisce l’elicottero al treno).  Serve un primo cittadino che abbia la competenza e la capacità di convocare un gruppo concreto di supporto e aiuto con gli strumenti finanziari possibili, con tecnici ad hoc e senza perdite di tempo e selfie di rito.




Treni e disagi tanto per non cambiare

Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo una lettera aperta scritta da Pietro Zoccolini, che ringraziamo per essere un nostro lettore. Ancora una volta al centro i problemi di collegamento ferroviario tra Orvieto e Roma, i pendolari, i disagi e il decoro, soprattutto il decoro…

Seguo i vostri articoli e in modo particolare quelli che riguardano il problema trasporti ferroviari-pendolarismo e non solo. La questione mi sta a cuore per molti motivi ma i principali sono: che vivo sul treno da oltre venti anni come pendolare; che Orvieto città turistica non può essere così bistrattata nei collegamenti ferroviario e non solo. Ho letto e condiviso spesso le cronache di viaggio che pubblicate. Cronache di disavventure per i pendolari per la maggior parte. 

Oggi voglio parlare di un altro caso, meno da pendolare ma più da turista/viaggiatore. La storia non è la mia ma quella di mia figlia Arianna e non è riferita a pendolarismo ma a viaggio occasionale anche se nel passato è stata pendolare rinunciando al lavoro per le difficoltà di collegamento appunto tra le città. Per l’uso che ne potete fare ecco di seguito il resoconto di un viaggio con Trenitalia da Orvieto a Roma. “Venerdì 24 maggio. Ho programmato un weekend a Roma con le mie amiche da settimane. Abbiamo prenotato il B&B, il punto di incontro, per tutte, è Roma.  L’orario previsto di incontro sono le 16,30, ma da Orvieto non c’è un treno che arrivi attorno a quell’ora. L’unica alternativa valida è il regionale delle 13,27 – ma io sono abituata a essere sempre quella che arriva prima di tutti gli altri. Mi sono sempre adattata bene. Quando arrivo al binario, mi posiziono in cima. Di solito è il punto in cui sale meno gente e si trova più posto, e il treno dell’ora di pranzo non è mai troppo trafficato. Ma mi rendo subito conto che qualcosa non va quando salendo i primi vagoni sono strapieni e, non solo. C’è caldo, tantissimo. L’unico vagone con l’aria condizionata che incontro è pieno fino al midollo di persone anche molto più grandi di me – che ho trentadue anni – e non mi sento, sinceramente, di fare alzare nessuno. Anche se soffro di ansia da viaggio e non è facile neanche per me. Mi sistemo in un vano tra un vagone e l’altro. C’è un altro ragazzo davanti a me, con cui ci scambiamo uno sguardo rassegnato. Nessuno parla, siamo in piedi e dentro di me mi dico: magari qualcuno a Orte scenderà. Le persone a Orte scendono sempre.

Comincio a sentire molto caldo: un po’ l’agitazione del momento, un po’ è che fanno davvero più di trenta gradi. Mi sento un po’ affaticata e comincio a ragionare se sia il caso di sedersi o meno sullo scalino, ma è lercio e io non ho coraggio. A Attigliano arriva una famiglia: madre, padre e tre bimbi piccoli. Si mettono vicino a noi. Con la signora ci scambiamo un sorriso rassegnato. Nel frattempo passa il controllore, che mi chiede il biglietto. Ho fatto il biglietto digitale, valido esclusivamente per il treno su cui sono sopra. Il controllore mi dice che senza check in dovrei pagare cinque euro in più. Io, in piedi, sudata, con il fiato corto e tutte le difficoltà del caso, non oppongo resistenza, anche se non capisco il senso. Mi scuso, persino, perché negli ultimi tempi ho fatto sempre il biglietto cartaceo e non lo sapevo. Arriviamo a Orte. Persone scese: due. Persone salite, solo sul mio vagone, una decina. Tutte stipate in cerchio intorno a me. Una ragazza più giovane cede allo scalino sudicio, i bambini si accovacciano sulle ginocchia e io, ormai con il respiro mozzo, cedo e mi siedo sul mio zaino.

Ora, mentre sto qui a scrivere non posso fare a meno di riflettere. Vivo a Orvieto e ogni volta che vado a trovare i miei amici mi sento dire: però sei fortunata, sei in un posto che è ben collegato. E io rispondo: è vero. Orvieto è un bel posto, sereno, si vive bene. Ma non è ben collegato, perché non è possibile che sulla linea Roma-Firenze ci siano così pochi treni, quasi praticamente solo regionali, un intercity ogni tanto. Qualcuno potrebbe obiettare, potevi prendere il treno successivo, saresti arrivata alle 16,48. E sarebbe stato sicuramente più vuoto. Perché? Perché non è un diretto. Avrei fatto un cambio di un’ora a Orte per un tragitto che, in alta velocità, richiederebbe si e no 45 minuti. E se questo disagio lo vivo io che sto andando fuori per il weekend, come fanno le persone che viaggiano tutti i giorni? Perché sono stata anche una di loro, tra parentesi, ed è vergognoso che per lavorare fuori si debba rinunciare alla propria vita personale, intrappolati in una routine dove ti svegli, prendi il treno, lavori, torni col treno e ci passi sopra, in sintesi, almeno il 30% del tuo tempo, togliendolo alla famiglia e al disimpegno personale, altrettanto importanti per mantenere una vita sana.

Qui qualcosa deve cambiare. Se non le ferrovie dello stato, il modo in cui Orvieto comunica e si rapporta con loro – perché è un sito turistico, ma stare ai tempi degli altri e a queste situazioni prima o poi porterà a un calo drastico delle visite. Non isoliamoci.”

Ora, immaginiamo i turisti di questo treno, magari in viaggio per Orvieto o da Orvieto diretti a Roma…

Cordialmente, Pietro Zoccolini.




Per la Fondazione l’elicottero è meglio del treno?

Ideale lettera aperta ai grandi elettori e ai sedicenti poteri forti della Città. Come sempre, da che mondo è mondo, darete le vostre indicazioni di voto. Si sa che aspettate per anni questo momento, non dite di no. Piuttosto, nell’esercizio di questa segretissima, inveterata ma, in fondo, autorevole prerogativa, fate almeno uno sforzo: non regalate la vostra preferenza a chi vi blandisce con le promesse facili. Mente: soldi ce ne sono sempre meno. E si spendono male. Con la solita prospettiva provinciale, garantista di piccoli interessi che non hanno mai cambiato le prospettive di questa Città. Che forse preferisce restare così: è un fatto.

Del resto, anche chi potrebbe veramente cambiarle – usando la forza del denaro più che la volontà della politica – non lo fa. Qualcuno avrà letto (si spera) il comunicato con il quale la Fondazione della Cassa di Risparmio di Orvieto celebra la sua attività. Pochi, probabilmente, si rendono conto che, nel suo piccolo (che poi tanto piccolo non è) la Città e il Territorio dispongono, proprio grazie a questa attività, da anni, di un esclusivo e originale “PNRR”, locale e non nazionale. Qualcosa da considerare come un mini Piano di Ripresa dove la “erre” sta magari per Rupe (e non per resilienza, anche se in zona non ne manca). La nota racconta che, lo scorso anno, sono state elargite risorse per oltre mezzo milione di euro utili a realizzare 86 iniziative. Tante. Forse troppe.

Nel senso che un boccone non si nega a nessuno ed è giusto. Ma insistere nel modello dei “soldi dall’elicottero” (qualcosa comunque arriva, la sostanza dell’helicopter money è questa) può essere un comodo strumento per piacere a tutti, ma finisce per non servire a nessuno.

Economicamente è una dispersione. Politicamente una manutenzione ordinaria. Ci sono le solite scuse, legittime: la tutela del patrimonio, la necessità di soddisfare più richieste possibili, nell’illusione di una spartizione democratica. Va bene. Ma perché per una volta, una, non concentrare le risorse in pochi progetti più ambiziosi, più qualificanti e “straordinari”? Perché non immaginare questa possibilità di svolta per sostenere la costruzione di una vera università (tanto per buttarne lì una a caso)? Perché non spendere una quota consistente di questi soldi per contribuire alla fermata di un treno ad alta velocità che non “passi” necessariamente per Perugia (tanto per buttarne lì un’altra a caso)? Ok, sono solo provocazioni. E uno potrebbe chiedersi perché farle in campagna elettorale. Semplice: perché chiunque si candidi deve sapere che esiste una Fondazione (ancora) socia di minoranza di una banca. Ma socia di riferimento, se vuole davvero esserlo, di una Città e del suo Territorio. Peccato nessuno ne parli.




Amazzoni e marrani e la nostra replica

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un articolo di replica al corsivo de Il Cavaliere Pallido a firma Angelica Ridolfi nel quale critica lo stile e i contenuti del corsivista che scrive sotto pseudonimo e non in maniera anonima, questo dobbiamo precisare.

Salve, Cavaliere pallido,

il tuo (o vostro) ultimo elzeviro mi ha disturbato così tanto che ho deciso, infine, di uscire dal cono d’ombra in cui avevo scelto di posizionarmi.

Angelica Ridolfi sono e fui. Docente di Filosofia e Storia all’Istituto Majorana Maitani di Orvieto. Dapprima ero incuriosita, e, anche, qua e là, divertita dai semi di zizzania gettate a larghe manciate.  Ma il vile anonimato, serbatoio dell’invidia meschina, non deve avere nessuno spazio in questa decisiva campagna elettorale – troppo usuale qui. Lo pseudonimo, maschilista, suprematista, americanista, razzista e, presumibilmente, fascio sionista, ha sollecitato, da parte mia, qualche ipotesi, anche ‘non binaria’.

Allora, scrivo perchè mi sento convocata: sono stanca di queste modalità becere che danneggiano ogni possibilità autentica di cambiamento. Ma quando cresciamo, così, tutt3? Su questo territorio è disseminata un’infinita essenza alchemica, la manna. L’alta nave pirata, ha bisogno del porto di Tortuga, seconda stella a sinistra e poi dritto, fino all’alba di una nuova mattina.

È il primo passo – poi ce ne saranno altri – verso questa elettrizzante nuova era, in cui l’unità preziosa, simbolica, del Sette, può trovare la forza di edificare la prossima cattedrale.

Dai!  Spegniamo i roghi e danziamo per una nuova libertà!

di Angelica Ridolfi

La replica del direttore

Come direttore è un obbligo rispondere. I toni qui, sono piuttosto veementi. A più riprese ho avuto occasione di spiegare che tradizionalmente il corsivista, molto spesso, scrive sotto pseudonimo perché si vuole tutelare la sua vera identità, perché l’autore scrive di questioni di cui normalmente non si occupa, perché si vuole scrivere con maggiore enfasi e libertà senza gli inevitabili lacci che provengono dall’utilizzo di nome e cognome. Le campagne elettorali sono, per definizione, sempre i momenti in cui lo scontro politico si fa più aspro anche fra alleati. Ne abbiamo avuto esempi anche a Orvieto nel recente passato. Nell’ultima campagna elettorale, quella del 2019, un candidato è stato colpito da attacchi giornalistici tanto che rinunciò a presentarsi mentre un altro sceglieva la strada giudiziaria per fermare una parte dei giornalisti locali. Senza andare a tirare fuori i “ceci di Natale” di cui la cronaca elettorale orvietana è stata sempre ricca. Le campagne anche nazionali sono così. E’ un male? Sicuramente non è un bene perché così si evita spesso di parlare e di discutere di programmi e progetti futuri per la città. Ma i toni anche aspri di polemica sono insiti nella politica.

Lo pseudonimo in questo caso, è una mera citazione filmografica, nulla di politico, assolutamente. Almeno non era nelle intenzioni di alcuno di noi, autore degli articoli incluso. Si voleva porre l’accento sul cow-boy senza macchia e senza paura, senza peli sulla lingua e piuttosto rude. Interessante il parallelo tra fascismo e sionismo, ma qui mi fermo, questa è tutta un’altra storia e non è questo il luogo e il momento per discuterne. Negli scritti non c’è traccia di razzismo, mi ero dimenticato, Su OrvietoLife non c’è spazio per il razzismo, mai!




Storie di cavalieri pallidi e scuri, critiche, giornalismo e politica

Fino ad ora non ho mai commentato e spiegato, ma forse è giunto il momento di chiarire.  Il Cavaliere pallido è andato giù durissimo.  Certamente non è stato delicato, politicamente scorretto e molto di parte.  Lo ha dichiarato fin dalla prima volta da che parte stava.  Certo se apparisse un cavaliere nero sarebbe una bella sfida….

E’ una campagna elettorale cattiva, dicono i detrattori, perché così la vuole il fantomatico corsivista di Orvietolife.  Diciamo la verità, allora, una volta per tutte.  Di cattiverie se ne dicono e scrivono tante, quotidianamente, soprattutto da quando si sono palesate le candidature, prima a sindaco e poi a consigliere.  Chi è senza peccato scagli la prima pietra!  Le voci e soprattutto gli screenshot girano vorticosamente, da alcuni verso tanti.  Quindi prima di prendere il sasso da scagliare pensiamoci tutti bene.

E’ tutta una corsa a scoprire chi sia questo fantomatico cavaliere pallido.  Descriviamolo.  E’ un cittadino, un po’ rude, che non conosce molto il politically correct, che scrive quello che in troppi sussurrano anche in chat private che ormai tanto private non sono.  E’ scomodo anche per chi ha deciso di ospitarlo senza filtri, o quasi.  Ospitarlo non è sinonimo di accordo totale, sia chiaro anche questo, ma la tutela del libero pensiero è la nostra stella polare, sempre.  Libertà di critica, di polemica anche dura.  Il “nostro” cavaliere ha una simpatia ben chiara ma non risparmia critiche a destra e manca e anche al civismo. 

L’ultimo corsivo ha scatenato polemiche a non finire, in particolare per la frase “quelli che alle elementari avevano il sostegno…”, effettivamente non politically correct.  Si poteva evitare?  Con il senno di poi tutto è perfettibile e correggibile, ma solo successivamente.  E poi, c’è chi se ne assume le responsabilità, il cavaliere pallido e il sottoscritto che è sempre disponibile a ospitare articoli di replica, sempre!

Quello che non si può accettare è la colpa di aver alzato il livello perché fin dall’inizio e anche in maniera preventiva c’è chi lo ha fatto.  Frasette, battute, messaggi, saluti mancati, agit-prop che provocano per strada e con chat.  Ma gli screenshot che sono sempre in agguato.    Le critiche al cavaliere pallido assomigliano molto al fumo negli occhi per distrarre il popolo dai programmi, i progetti e le vere intenzioni dei 4 candidati sindaco. Di una cosa, per concludere, sono certo che dopo aver riportato acriticamente i comunicati di ogni parte politica così come prevede la legge resta l’autonomia del giornalista di scrivere, commentare, criticare, essere parte come ogni cittadino della vita politica.  La marmellata con un’informazione piatta e silenziosa non ci piace, non ci piacciono le posizioni protette, comode e abbiamo sempre scelto di battersi per un’informazione libera e indipendente da interessi e potentati.




Servizio dello scuolabus sospeso, famiglie in difficoltà, alcuni bambini restano acasa ma nessuno ne parla

Succede che delle lavoratrici, dopo aver comunicato da tempo il loro disagio a chi di dovere ossia
aver informato del fatto che non venissero pagate da mesi, decidano, giustamente, di licenziarsi.
Succede che queste fossero le operatrici dipendenti della ditta che ha vinto l’appalto con il
Comune di Orvieto per svolgere il servizio di accompagnamento sugli scuolabus della scuola
dell’infanzia quindi un servizio necessario per consentire ai bambini dai 3 ai 5 anni, di essere
accompagnati nel tragitto da casa alla scuola e viceversa.
Così, dal 23 aprile 2024, il servizio dello scuolabus verso le scuole dell’infanzia del territorio è
sospeso. Tu lo sapevi? Io l’ho appreso leggendo la notizia che mi sembra stia stata riportata solo
da un unico giornale on line che descriveva il problema e riportava che tale servizio sarebbe stato
ripristinato il 29 aprile (https://www.orvietolife.it/la-ditta-appaltatrice-non-paga-gli-stipendi-dainizio-anno-le-vigilanti-degli-scuolabus-per-le-materne-si-licenziano-e-il-servizio-e-sospeso-dadue-giorni/ ).
La cosa interessantissima è che domani è il 6 maggio e il servizio è ancora sospeso. “E mammamia,
che sarà mai!” mi vorrai dire. E io rispondo che questa è nuovamente una cosa per cui non
dormirei la notte (una l’ho già detta alcuni giorni fa) ossia la mancata possibilità di accesso ad un
servizio, e, in questo caso, anche la mancata equità. Sì perché a parte che le famiglie il servizio lo
pagano e non lo hanno, ma tutti quei bambini che restano a casa perché non riescono ad essere
accompagnati? E le difficoltà in cui vengono messe le famiglie che si ritrovano da un momento
all’altro senza un servizio? Come ci va un bambino all’asilo di Bardano che manco i servizi pubblici
ci arrivano? Ora ecco, a parte la mancata rappresentazione degli interessi dei più piccoli, delle
famiglie, delle lavoratrici ma qui manca proprio l’informazione. Quando riprende questo servizio?
Su una cosa così importante, il silenzio. Cosa dovrebbe fare un amministratore in merito? Non
sono un’amministratrice e non ho le competenze per avere la risposta. L’unica cosa che so è che il
numero delle scuole materne del Comune di Orvieto si contano sulle dita della mano quindi anche
le relative corse dei pulmini e che, in un momento di urgenza, personale qualificato per poter
tamponare l’assenza del servizio dovuta ai tempi burocratici del nuovo appalto o di che so io, il
nostro territorio lo ha. Vedete voi, almeno “metteteci una pezza”




La valigia di cartone

Il discrimine (e la discriminazione) non può essere tra chi torna e chi non se ne vuole andare. Il vero problema di Orvieto è quello di chi non può restare perché mancano servizi, lavoro e opportunità. Piuttosto sarebbe felice ricordare che chiunque vada via, emigri, perché segue il sogno di una carriera (o semplicemente sfida la sorte e deve abbandonare – con fatica e nostalgia – la città) spesso ritroverà nella sua “valigia di cartone” strumenti utili che gli sono stati donati dall’essere nato, cresciuto o maturato qui. Dall’aver respirato, visto, toccato quanto qui sopravvive alle sfide, ma dei millenni. Ho sempre pensato che ci scorra inevitabilmente nel sangue qualche gene di lontanissimi avi che hanno costruito il Duomo: operai, artigiani, pittori, fabbri. Ce li abbiamo tutti, questi geni, qualcuno li ha portati a spasso per il mondo: non sarà mica un problema. O sì?

Sono (tanti) anni che la Città cammina al contrario rispetto alle tendenze che hanno fatto la fortuna di posti di provincia ugualmente piccoli, non così celebrati, ma evidentemente più evoluti. Più interessanti. O, semplicemente, più furbi. Ricadere in questo errore storico (ma quanto siamo belli, ma quanto siamo bravi…) consacrerebbe Orvieto come il più splendido e invitante “autogrill” che s’incontra in migliaia di chilometri su e giù per l’Italia.

Anni fa, in uno spot sul canone Rai (fatto pietosamente sparire dopo pochi passaggi in prima serata) una coppia dialogava su come trascorrere il fine settimana. E lui diceva a lei, qualcosa del tipo: dai, andiamo a Orvieto. E lei rispondeva: scusa, ma che cosa ci andiamo a fare a Orvieto? Carissime candidate e carissimi candidati, alla sceneggiatura del prossimo spot dovete idealmente pensare voi, adesso. Una piccola dritta: sarebbe bellissimo che quei due potessero decidere insieme di tornare a Orvieto. Ma non solo per il fine settimana.




Omaggio a Immanuel Kant, che da 300 anni è tra di noi

Trecento anni fa, il 22 aprile 1724, nasceva Immanuel Kant, il filosofo che più di ogni altro ha influenzato il pensiero contemporaneo, cosicché oggi possiamo dire, come ha scritto Sebastiano Maffettone, che «le sue idee e le sue teorie sono parte integrante del nostro patrimonio intellettuale».

 È Kant stesso a dirci di che cosa si è occupato nella sua vita interamente dedicata alla filosofia: «Ogni interesse della mia ragione (così lo speculativo, come il pratico) si concentra nelle tre domande seguenti: Che cosa posso sapere?; Che cosa devo fare?; Che cosa posso sperare?». Sono le nostre stesse domande. Ad esse sono dedicate le tre grandi opere del suo “criticismo” (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Critica del Giudizio), un monumento del pensiero occidentale.

Un genio del pensiero. Per comprenderne la portata basta ricordare alcune delle sue più celebri affermazioni:

«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me».

«Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo e mai come semplice mezzo».

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso…. Sápere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo».

Come ha scritto ancora Sebastiano Maffettone, il concetto che può farci da guida per capire la profondità della filosofia kantiana e la ragione della sua presenza come tratto essenziale del pensiero occidentale è quello di autonomia, che riguarda sia l’aspetto teoretico che quello della morale ed «è il vero faro che illumina il percorso della modernità».

Come ha scritto a sua volta la filosofa statunitense Susan Neiman, «la sua grande scoperta è la distinzione tra il mondo come è e il mondo come dovrebbe essere». Siamo esseri dotati di libertà e perciò responsabili delle nostre azioni. Possiamo cambiare il mondo, pur essendo e necessariamente restando un «legno storto».

Io aggiungerei che senza l’uso critico della ragione, fondamento della sua filosofia, non potremo né esercitare né difendere la democrazia. Anche quando siamo delusi, possiamo sempre agire «come se …» e avvicinarci alla mèta. A questi temi e ad altri del pensiero di Immanuel Kant abbiamo dedicato la “Decade kantiana”, in analogia con la “Kant decade” tedesca, il programma di riflessioni annuali dirette agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado che quest’anno, all’inizio di dicembre, giunge appunto al decimo e ultimo anno