Orvieto, città a un bivio

Siamo davvero a un bivio? Dopo anni di decadenza è possibile ancora sperare in una ripresa? Quale futuro ci attende? Una possibile risposta ci viene dall’interessantissimo studio curato nel 1999 da Enrico Ridolfi in “Infanzia e Memoria” per l’Università della Terza Età, con il prezioso contributo della psicologa Elena Liotta e l’urbanista Enzo Scandurra, già assessore del Comune di Orvieto.

L’analisi parte da un dato a dir poco sconcertante: “Il Comune di Orvieto ha un primato mondiale: l’indice di invecchiamento della sua popolazione. Sembra, infatti, che l’Italia sia la nazione con il più alto indice di invecchiamento del mondo e, in Italia, l’Umbria (assieme ad altre quattro regioni) abbia questo primato. In Umbria, Orvieto è la città con la più alta concentrazione di anziani”. Altra caratteristica della città di oggi è una lenta ma costante diminuzione della popolazione: da un massimo di 25.393 abitanti nel 1960 agli attuali 19.307, con il tasso delle nascite che si attesta a meno della metà del tasso di mortalità.

Il declino demografico ha inizio nel 2012 e da allora è inarrestabile. Ogni anno l’Umbria perde circa 5.190 abitanti, mentre il calo medio di Orvieto è di circa 140 abitanti. Un’emorragia che continua, nonostante una poderosa iniezione di nuovi residenti esteri. L’ultima rilevazione Istat a gennaio 2022 infatti porta il nostro comune sotto la soglia dei 20.000 abitanti e proiettando il dato del calo demografico medio annuale in 10 anni ci si avvicinerebbe pericolosamente alla soglia dei 16mila abitanti. Insomma l’Umbria si attesta ad un indice pari a 217,7 e Orvieto ad un indice di 264,2 mentre l’indice nazionale è pari a 184,1.

Ma ecco cosa succede alla popolazione: “Gli abitanti appaiono adesso separati, diffusi, in un processo di ‘periferizzazione’ (Orvieto Scalo, Sferracavallo, Ciconia) che si accompagna al senso di una dispersione sociale, da un consumo di suolo e degrado ambientale”. Risulta evidente che con l’espansione urbana, la nostra città, nel suo piccolo, non ha saputo sottrarsi. Si perdono così “quei valori affettivi legati profondamente ai luoghi ‘densi’ di ‘valori simbolici’ che caratterizzano il centro o i centri della città storica”. Così, la vecchia città sulla rupe, restaurata e perfetta nella sua immagine medioevale, è ormai lentamente abbandonata. Il ‘centro’ più che un reale spazio di vita sociale ed economica si è trasformato nella vetrina di lusso di chi, cittadino o turista, vive altrove.

Questa città si mostra disattenta, annoiata, depressa, spesse volte chiusa e ostile a quanto di nuovo e vitale si esprime nel territorio e nella ricerca culturale contemporanea. A proposito, non è un caso si potrebbe aggiungere che tutto sembra rimasto agli anni 60’, imprigionato da vecchie politiche che spendono il patrimonio storico-artistico (Duomo e Pozzo di san Patrizio) o come contenitore per altre attività culturali (conferenze, concerti, spettacoli,

ecc.), o per una promozione turistica volta ad incrementare la vendita dei biglietti d’ingresso ai monumenti, senza fare nulla per creare prodotti attrattivi di qualità che prolunghino il tempo di permanenza dei visitatori. D’altro canto si sta velocemente perdendo anche l’attaccamento alla terra, a quella cultura contadina che ormai viene conservata dalla popolazione più anziana.

In uno studio realizzato in quegli anni dal Comune di Orvieto si legge: “Un problema di fondo investe il mondo giovanile orvietano, legato ad un debole sentimento di appartenenza alla propria realtà, che si accompagna alla incapacità-impossibilità di leggere-immaginare il proprio futuro. I giovani sembrano estranei in casa propria, e ciò finisce per impoverire la loro progettualità, tanto da ripiegarsi in se stessi assumendo atteggiamenti di rinuncia e di non partecipazione”. Questa città è difficile da definire poiché risulta una commistione di storia e di gloria; di miseria e di arretratezza; di chiusura e di provincialismo; di aperture e di slanci destinati a consumarsi e spegnersi presto; in ogni caso una città incerta e confusa nel darsi un’identità e quindi un futuro, rischiando di perdere sogni e speranze che inevitabilmente si dissolvono in un profondo senso d’impotenza a cambiare.

 

Bibliografia: Enrico Ridolfi, “Infanzia e Memoria”, Università della Terza Età, 1999.