L’ennesimo viaggio da incubo sul Regionale 4106 delle 17,20 per Orvieto

Un afoso e pesante giovedì romano di metà maggio.  Una estenuante stanchezza dopo la solita impegnativa giornata lavorativa, stanchezza acuita dal caldo afoso e dalla pesante cappa di aria umida che domina il cielo che copre la Capitale.

L’unica fonte di benessere è la speranza di riuscire a trovare un posto a sedere sul solito treno “carnaio” 4106 per Orvieto in partenza alle 17,20.  Troppo stanco stasera. Troppo abbattuto da questo caldo opprimente che quasi fa girare la testa.  Alzo lo sguardo al cielo, quasi in segno di preghiera.  Con una richiesta Lassù, nel caso ci sia qualcuno in ascolto.  La preghiera di non fare il viaggio in piedi.
Alle cinque in punto entro nella stazione Tiburtina. Dopo cinque minuti sono sul solito binario sei.  Troppa gente in attesa. Gran brutto segno.  I minuti dalle cinque sino alle cinque e mezza, orario previsto per l’arrivo del 4106 che da Roma Tiburtina mi deve condurre a Orvieto, sembrano lunghissimi. Una interminabile agonia.
In piedi, con il sole che picchia sulla testa e con la gente che affolla il binario che aumenta di minuto in minuto.  Alle diciassette e venticinque, tre minuti prima dell’arrivo del treno, l’altoparlante annuncia che arriverà con quindici minuti di ritardo.  Vorrei essere sopra un ponte altissimo e buttarmi di sotto.  Guardo con terrore l’orologio gigante in fondo al binario sei.  Mentre la gente lungo il binario aumenta in maniera paurosa di minuto in minuto. Il treno arriva alle 17,45 precise.  La gente si muove come una colossale onda oleosa e telecomandata appena arresta la sua corsa.  Io come sempre salgo sulla prima carrozza, quella attaccata alla motrice.  Non solo diventa un miraggio trovare un posto sul quale sedersi.  Ma diventa difficoltoso anche trovare uno spazietto per stare in piedi, per respirare. La carrozza è completamente occupata, nella totalità dei posti a sedere, da una gita scolastica.  Una volta le gite scolastiche si facevano in pullman. Adesso invece spesso si usa il treno per motivi economici.  Echeggia nella carrozza un chiacchiericcio costante e fastidioso di ragazzi altissimi e fanciulle già donne che, incuranti di essere in un luogo pubblico con gente magari pure “distrutta” dopo una giornata di lavoro, urla e
sbraita come se fossero in un pullman e quindi come se non ci fosse nessuno.  Gli insegnanti come non ci fossero. Forse esauriti e sfiancati da tanto ardore giovanile.
Provo un po’ di invidia mista a un senso di ammirazione per “l’età scapigliata” e gioiosa della comitiva.  Il treno comunque non sembra intenzionato a partire verso Orvieto.  Neanche ho lo spazio fisico di muovermi per provare a spostarmi.  Mossa che sarebbe perfettamente inutile, visto che i passeggeri per poter salire hanno occupato ogni angoletto.  Alle 17,48 lentamente il treno inizia a muoversi.
Stanchissimo, morto di caldo, con la testa che quasi sembra voler mettersi a girare, valuto la mia situazione.  Mi trovo su un treno regionale stracolmo all’inverosimile, in ritardo, con neanche lo spazio fisico per respirare.  Mi assale una voglia irrazionale e irrefrenabile di dare violente capocciate contro il finestrino.  Ma mi trattengo.
Pensando tra me e me che passerà questa ora di viaggio.  Ma il 4106 è una tortura a fuoco lento per noi pendolari orvietani.  Appena partiti da Tiburtina il gracchiare del solito vecchio e malfunzionante altoparlantino annuncia che il treno 4106, causa affollamento sulla linea direttissima, percorrerà linea convenzionale nel tratto Roma Tiburtina-Orte.
Quindi non un’ora di questo viaggio infernale.  Ma due ore.  Infatti arriviamo ad Orvieto dopo due ore e due minuti di viaggio.  Il solito viaggio inumano, massacrante, sfibrante, da incubo.  Che sarebbe da non augurare neanche alle bestie.
Il viaggio con il 4106 del 16 maggio 2024 per rientrare dal lavoro a casa.  Il solito, vergognoso e indecente viaggio riservato, nella indifferenza di tutto e di tutti, a noi pendolari orvietani.