La valigia di cartone

Il discrimine (e la discriminazione) non può essere tra chi torna e chi non se ne vuole andare. Il vero problema di Orvieto è quello di chi non può restare perché mancano servizi, lavoro e opportunità. Piuttosto sarebbe felice ricordare che chiunque vada via, emigri, perché segue il sogno di una carriera (o semplicemente sfida la sorte e deve abbandonare – con fatica e nostalgia – la città) spesso ritroverà nella sua “valigia di cartone” strumenti utili che gli sono stati donati dall’essere nato, cresciuto o maturato qui. Dall’aver respirato, visto, toccato quanto qui sopravvive alle sfide, ma dei millenni. Ho sempre pensato che ci scorra inevitabilmente nel sangue qualche gene di lontanissimi avi che hanno costruito il Duomo: operai, artigiani, pittori, fabbri. Ce li abbiamo tutti, questi geni, qualcuno li ha portati a spasso per il mondo: non sarà mica un problema. O sì?

Sono (tanti) anni che la Città cammina al contrario rispetto alle tendenze che hanno fatto la fortuna di posti di provincia ugualmente piccoli, non così celebrati, ma evidentemente più evoluti. Più interessanti. O, semplicemente, più furbi. Ricadere in questo errore storico (ma quanto siamo belli, ma quanto siamo bravi…) consacrerebbe Orvieto come il più splendido e invitante “autogrill” che s’incontra in migliaia di chilometri su e giù per l’Italia.

Anni fa, in uno spot sul canone Rai (fatto pietosamente sparire dopo pochi passaggi in prima serata) una coppia dialogava su come trascorrere il fine settimana. E lui diceva a lei, qualcosa del tipo: dai, andiamo a Orvieto. E lei rispondeva: scusa, ma che cosa ci andiamo a fare a Orvieto? Carissime candidate e carissimi candidati, alla sceneggiatura del prossimo spot dovete idealmente pensare voi, adesso. Una piccola dritta: sarebbe bellissimo che quei due potessero decidere insieme di tornare a Orvieto. Ma non solo per il fine settimana.