La nuova (e vecchia) metafisica della “banca locale”

Nel pieno furore della lunga estate calda, è divampata sulla stampa locale la vexata quaestio della banca locale; le narrazioni sulla questione – che si dividono nell’attribuzioni di meriti (pochi) e colpe (tante) – concordano, invece, sulla profittabilità per il territorio della presenza di un istituto di credito a vocazione locale.

In questo contributo vorrei sottoporre a verifica quest’ultimo aspetto; per fare ciò è necessario condividere una rappresentazione stilizzata del funzionamento di una banca: il modello che propongo è di una istituzione che ha una “funzione di utilità”, cioè una relazione tra posizioni assunte sul mercato dei titoli e dei prestiti e “grado di benessere della banca”. L’idea è che l’istituzione debba massimizzare tale benessere, cioè tale funzione di utilità, e per farlo scelga tra i vari investimenti tenendo conto del rendimento atteso e del rischio: ad elevati profitti si associa molta alea e viceversa. Tenendo conto dell’avversione al rischio, soggettiva, la banca assemblerà il portafoglio in grado di massimizzare la sua utilità.

Prima osservazione: almeno in linea di principio e salvo per esempio eventuali restrizioni normative, la dislocazione geografica degli investimenti conta se e solo se impatta sui rendimenti per unità di rischio, per cui è già implicita nel meccanismo descritto. Ad esempio, è empiricamente rilevato che a parità di altre condizioni le imprese del meridione hanno una maggiore probabilità di insolvenza.

Seconda osservazione: investimenti meritevoli, cioè che massimizzano la funzione di utilità, ovunque territorialmente dislocati, verranno sempre posti in essere sia da una banca nazionale sia da una locale. Stante così le cose, dove si annida il nocumento dell’assenza di una banca a vocazione locale, che le varie narrazioni danno per scontato?

Necessariamente nel fatto che una banca locale dovrebbe/potrebbe finanziare investimenti sub-ottimali, cioè che non dovrebbe effettuare, anzi non effettuerebbe, se seguisse una logica economica.

Per “forzare” la banca a non massimizzare la propria funzione di utilità, nel contesto della rappresentazione che ho proposto, si dovrebbe ammettere l’esistenza o di un vincolo – che in ogni caso “imponga” di investire un certo ammontare minimo a livello locale – o l’introduzione nella funzione di utilità, a fianco del rendimento e del rischio, di una ulteriore variabile che faccia dipendere il benessere della banca anche dal fatto che si sia investito in attività locali, indipendentemente dal loro profilo di rischio/rendimento.

Quindi, terza osservazione, il punto economico, nascosto tra le pieghe della narrazione sulla banca locale, riguarda la possibilità che iniziative che non sarebbero considerate degne di essere finanziate in assenza di un istituto a vocazione territoriale, invece lo siano in sua presenza.

Quali sono le conseguenze di questa conclusione? A livello nazionale una situazione sub-ottimale, con alcuni investimenti ottimali spiazzati da quelli sub-ottimali, a livello locale un livello ceteris paribus più elevato di investimenti industriali e una maggiore rischiosità della banca derivante dal fatto di aver assecondato progetti con un rendimento per unità di rischio non ottimale; questo ultimo aspetto è cruciale: tale alea si ripercuote sui detentori sia delle quote di capitale della banca – fondazioni, investitori istituzionali e singoli risparmiatori – sia degli strumenti di debito – obbligazioni, certificati di deposito e conti correnti – ma soprattutto assorbendo patrimonio di vigilanza, il maggior rischio erode, nel lungo periodo, le possibilità della banca di sostenere investimenti più meritevoli.

In sostanza, quarta osservazione, in virtù della politica descritta, la banca sarà meno redditiva, più rischiosa e meno in grado di finanziare in futuro gli investimenti ottimali.

Come si vede non necessariamente spingere l’investimento oltre le colonne d’Ercole dell’ottimalità è una buona prassi per il territorio, ove si valutino nel lungo periodo tutte le implicazioni. Gli unici casi in cui, probabilmente, la banca locale avrebbe ragione d’essere sono, in primo luogo, quando vi sia una forma di informazione (molto) asimmetrica: l’istituzione specializzata sul territorio è in grado di meglio valutare le aziende del comprensorio e di non commettere errori di selezione nelle quali cadrebbero, invece, le banche nazionali. In secondo luogo, nei casi in cui la banca nazionale, per qualche motivazione, non effettui gli investimenti locali, anche se ottimali. Infine, quando la banca locale abbia una minore avversione al rischio e quindi si spinga a finanziare anche attività aleatorie che la banca nazionale scarterebbe.

Sembrano veramente casi molto particolari, per cui, ahimè, si può concludere che nel lungo periodo non vi sono scorciatoie per la crescita! Neppure si può confidare nel metadone monetario prodotto da una categoria, ormai metafisica, come “la banca locale”; si tratta, invece, per i policy maker, di settare un habitat favorevole all’investimento, per le imprese, di ricomporre la filiera di produzione nella direzione della rete e nel suscitare economie di scala da integrazione orizzontale – cioè realizzare una certa fase di produzione per un gran numero di aziende – e per le banche, finanziare chi merita, cioè quegli investimenti il cui  profitto riportato a oggi, il così detto valore attuale ottenuto tramite il tasso di preferenza intertemporale di una popolazione (tasso di sconto), superi il costo dell’impianto. Gli altri investimenti? Io “preferirei di no”!