Il delicato compito del giudice

Tempo fa, mettendo in ordine libri ed appunti di una mia carissima amica, tornata alla Casa del Padre dopo una lunga ed intensa esistenza di 99 anni, ho trovato tanti ricordi interessanti e straordinari che, rileggendoli a distanza di tempo, invitano ad una seria riflessione sui valori della vita. Tra i tanti reperti uno, in particolare, ha catturato la mia attenzione. Si trattava di una lettera confidenziale, scritta da un’amica nel lontano 1981, la quale da poco tempo aveva iniziato la sua carriera in magistratura come giudice, in una delle tante preture italiane. Eccone il testo che semplicemente riporto in parte.

Carissima CC, ti scrivo da un processo angoscioso in cui gli imputati erano accusati di sfruttamento della prostituzione in danno di una ragazza, all’epoca dei fatti appena diciottenne. Abbiamo finito con l’assolverli per insufficienza di prove dopo una camera di consiglio protrattasi per oltre tre ore. Com’è difficile accertare la verità! Nei momenti più angosciosi della nostra lunga verifica dei fatti ho invocato lo Spirito Santo e la Madre del Buon Consiglio.

Spero che la soluzione adottata sia stata ispirata da Loro e rispecchi la necessaria umiltà in cui un giudice deve porsi quando gli elementi obiettivi non sorreggano pienamente l’accusa. Appena tornata a casa, comunque, ho pianto e pregato meditando sulla passione di Gesù. Nell’orto del Getsemani Gesù ha sofferto non solo e non tanto per la sua morte vicina, quanto per l’enorme mole di peccati dell’uomo di ogni tempo. Sì, Gesù ha pianto anche per gli imputati di oggi, per la triste storia della prostituzione di questa ragazza, per tutte le miserie umane che mi sfilano davanti nelle aule giudiziarie. Gesù ha pianto, ha condiviso ed ha redento. Ed io, con Lui, devo piangere, condividere e salvare le mie miserie e quelle dei fratelli che sono chiamata a giudicare. Mi sto sempre più convincendo che non bastano le sentenze umane, per quanto giuste e maturate siano: l’unica cosa che può riscattare l’uomo è l’amore….Devo, quindi, bere il calice amaro del mio lavoro fino in fondo, tornare a casa e piangere con Gesù per i miei imputati e le loro miserie.

Questa, in parte, la lettera scritta 42 anni fa: sia la destinataria che l’amica giudice ormai sono andate a godere della visione beatifica di Dio e a cogliere il premio eterno per aver trascorso la loro lunga vita in piena adesione agli insegnamenti evangelici. In questa lettera l’amica giudice esprime i suoi più intimi sentimenti professionali e spirituali e con amarezza constata quanto la giustizia umana lascia sempre più insoddisfatti, anche quando fa leva su lunghi e complessi articoli di legge. In che modo può un giudice, come scrive san Paolo “fare la verità nella carità”, “veritatem facientes in caritate”(Ef 4,15), portando alla luce le tenebre dell’iniquità e punendo i colpevoli? Il mondo di oggi riflette, per tanti aspetti, la situazione di 40 anni fa. Il giudice è chiamato ad essere il custode attento e operoso dei valori fondamentali espressi nella nostra Costituzione quali il valore della persona, del lavoro, della solidarietà nazionale ed internazionale, della libertà religiosa e culturale, della parità di tutti i cittadini di fronte alla legge e il rispetto dei diritti e dei doveri di ciascuno di noi. Tutti questi valori, riconosciuti dalla nostra Costituzione repubblicana sono in perfetta sintonia con i valori cristiani, evangelici che devono animare la vita del credente. Il giudice, nella fedeltà a Dio e agli uomini, nella sua funzione di interpretare ed applicare la legge, fra tutte le possibili soluzioni deve privilegiare, adottare sempre quella più coraggiosa e rispondente ai principi indispensabili della nostra vita sociale.

La giustizia non contraddice alla carità, anzi procede da essa, è intimamente legata all’amore, perché in tutte le questioni di diritto la norma prevalente deve essere l’amore. San Giovanni Paolo II ha affermato in più occasioni che giustizia e carità sono inseparabili “Non vi può essere vera carità se si nega la giustizia”. Infatti, fondamento della giustizia è la persona nella sua vita di relazione e in forza di questa valenza antropologica la giustizia assume un valore etico per il quale l’altro è un essere dal volto umano, con la sua dignità di persona che richiede attenzione e rispetto. In questa prospettiva ecco che la giustizia è amore, è carità che apre al dono e al per-dono. Papa Francesco, durante una sua udienza a un gruppo di giuristi cattolici, li ha esortati al dovere del rispetto della dignità di ogni persona, senza discriminazione di sesso, di cultura, di razza, di religione, li ha sollecitati a costruire percorsi di giustizia e di legalità. Ha ricordato oneri e onori, responsabilità e obblighi di chi esercita la giustizia che è valore primario, indispensabile per il corretto funzionamento di ogni settore della vita pubblica. Esercitare il ruolo di giudice, nell’ambito di una legislazione giusta e conforme alle legittime esigenze di una società che cambia di continuo, oggi non è un compito semplice, perché è una professione che esige competenza, saggezza, coscienza, rettitudine e prudenza. La magistratura è chiamata a combattere le mafie, la corruzione, il malcostume della pubblica amministrazione, a fronteggiare la crisi economica e sanitaria di questo tempo, a dare risposte ai cittadini su temi e materie sempre più attuali ma poco regolamentati, e se non ha uomini che, nei rispettivi ruoli e compiti, testimoniano concretamente e in modo credibile il senso della giustizia, fallisce in tutto. Il magistrato che si impegna secondo coscienza, giorno per giorno, svolge il suo lavoro con estrema pazienza e trasparenza, soprattutto quando si tratta di emettere sentenze penali nei confronti degli imputati.

Uno dei momenti più difficili da affrontare, per un magistrato, è quando è chiamato a decidere e a dover coniugare giustizia e carità. In queste circostanze sono da suggerire e recitare alcuni versi tratti dal libro della Sapienza in cui si implora dal “Dio dei padri e Signore della misericordia” il dono “della sapienza che siede accanto a Te in trono“perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica” (Sap 9,1-4-10). Qualche anno fa abbiamo assistito alla beatificazione di un giovane giudice: Rosario Angelo Livatino, martire della giustizia e della fede, ucciso a soli 38 anni in un agguato di mafia nel settembre 1990, mentre si recava in tribunale. Forse è la più bella figura tra le vittime della mafia per coerenza di vita e di carità, dotato di un forte senso etico, pronto al dialogo e al rispetto della persona, soprattutto degli imputati. È il primo magistrato, nella storia della Chiesa, che sale agli onori degli altari. Un autentico cattolico, innamorato della vita, della giustizia, della verità: ogni mattina, prima di recarsi in tribunale, andava in chiesa a pregare, era assiduo all’Eucaristia domenicale, non faceva mistero della sua fede cristiana che conciliava rigorosamente con la laicità della sua professione. Qualche testimone al suo processo diocesano lo ha descritto come una persona con il Vangelo nella mano destra e il Codice nella sinistra. Era impegnato in prima linea perché si era occupato di inchieste di mafia, senza scendere mai a cedimenti, nonostante la sua giovane età, e non mancava di recarsi all’obitorio a pregare davanti ai cadaveri dei mafiosi, bisognosi della misericordia divina, perché fossero accolti all’eterno riposo e perdonate le loro colpe. Conduceva una vita riservata: viveva a Canicattì, in provincia di Agrigento, con i genitori anziani. Sulle sue agende, sui quaderni delle note e sui codici, che spesso consultava, in un angolo della prima pagina era annotato l’acronimo STD, talvolta unito ad un piccolo segno di croce, il cui significato era “sub tutela Dei”, perché quotidianamente metteva tutto nelle mani di Dio compiendo un atto di totale affidamento al Padre celeste. Viene spontaneo un accostamento al beato don Pino Puglisi: due vittime della mafia con due esperienze diverse.

Il sacerdote e il giudice entrambi siciliani ma uniti da un grande amore per la propria gente e la propria terra e dal desiderio di un riscatto storico-sociale, perché come affermava il beato don Puglisi “la mafia è potente ma Dio è Onnipotente”