Penultimo martedì di ottobre. Serata umida. Ora di affollamento per i pendolari orvietani che devono rientrare con il regionale 4106 in partenza da Roma Termini dagli odiosi binari est.
I soliti fortunati, che escono un po’ prima dal lavoro e che arrivano intorno alle cinque a Termini, riescono a salire sul treno e trovare un posto libero per fare il viaggio non in piedi. Che in queste umide serate autunnali, dopo una sfiancante giornata lavorativa, non è una fortuna da poco. Occorrerebbe spiegare a chi gestisce le FS, e ai nostrani politici, come il tempo si dilati, dopo una levataccia all’alba per raggiungere in orario il posto di lavoro nella Capitale. E dopo una giornata intera di dura fatica. Occorrerebbe fare capire loro che arrivati alla stazione per il rientro serale, anche cinque, dieci minuti di ritardo sembrano ore. Sarà per l’umidità che avverti nelle ossa, sarà per la stanchezza accumulata nel corso della giornata lontani da casa, ma ogni minuto di ritardo diventa odioso e lungo da passare. Il treno per fortuna è partito quasi in orario da Roma Termini. Alla stazione Tiburtina la solita lunga fila di “disperati” ad aspettarlo. Con la speranza di rimediare un posto nel quale potersi sedere. Un terno al lotto. Su cento persone che salgono, i posti liberi solitamente sono sette o otto. I pochi fortunati che indovinano il punto preciso di arresto presso le porte di ingresso al vagone ce la fanno.
Come diceva quella canzone “uno su mille ce la fa”. Gli altri tutti in piedi. Stipati come bestie, lungo le carrozze, nei corridoi o nello spazietto davanti alle porte dei bagni, tra un vagone e l’altro. Stessa storia anche il 23 ottobre sera.
Io mi ritrovo stretto tra una signora dalla corporatura robusta, forse troppo robusta, un signore anziano che si regge in piedi non per sua volontà ma per una legge fisica dettata dalle persone che gli stanno addosso, e una ragazzetta esile e carina che sembra sul punto di essere stritolata. Le porte si chiudono. E ciascuno si augura che trascorrano presto i trenta minuti di calvario da affrontare fino a Orte. Dove tanti passeggeri scendono e per tutti si libera un posto. La solita orrida sensazione sorge spontanea nel prendere coscienza che il treno non riparte subito. Trascorrono cinque, poi dieci minuti. Che sembrano cinque, dieci ore.
Poi la solita terribile pugnalata. L’annuncio che per troppo traffico sulla linea Direttissima, il treno 4106 percorrerà la via convenzionale. Ovvero la linea lenta fino a Orte. Vale a dire oltre un’ora di percorrenza di viaggio tra Roma e Orte Non si può. Non è giusto. Non è umano.
E’ arrivato il tempo che qualcuno finalmente si muova e faccia qualcosa per poter umanizzare le condizioni di viaggio di chi rientra in questa fascia oraria. Di chi deve servirsi di questo treno. E gli orvietani che usano questo treno per tornare a casa sono tanti, tantissimi.
Per la cronaca dopo un viaggio a dir poco infernale, il regionale veloce 4106 è arrivato a Orvieto alle ore 19,34. Doveva arrivare alle 18,23. Un’ora e undici minuti di ritardo. Qualcuno faccia capire ai dirigenti FS, e ai politici nostrani, che dopo una levataccia all’alba, che dopo una stancante e dura giornata di lavoro, ogni minuto di ritardo nella percezione di chi non vede l’ora di rimettere piede a casa, diventa un’ora.
Qualcuno dei politici locali, per Carità Divina, provi finalmente a fare qualcosa per mettere fine a questo trattamento inumano, e indegno per degli esseri umani, riservato si pendolari orvietani.