“Dopo il fallimento ideologico e pragmatico espresso dal civismo (locale) vediamo di indicare (leggendo) il vero civismo che serve alla società e alla politica”

Civismo è l’ultima delle parole magiche che la politica ha usurpato dal vocabolario per elevarla a (illusoria) formuletta risolutiva della propria crisi di idee, di contenuti, di senso. Dunque, di credibilità. Eccome tutte le parole magiche che, periodicamente, diventano di moda nel discorso pubblico, anche questa sfugge a una precisa definizione, può contenere tutto e li contrario di tutto, il vero e li falso, li bene e il male. Eppure civismo è una parola dal significato preciso perché antica, antichissima. Basterebbe avere qualche dimestichezza con l’etimologia per comprendere l’uso inappropriato e fuorviante che se ne sta facendo in questi mesi per far fronte al declino della politica e all’eclissi dei partiti. Viene dal latino civis, cittadino: alto senso dei propri doveri di cittadino, che spinge a trascurare o a sacrificare il proprio benessere per l’utilità comune, è la definizione della Treccani. Significa, cioè, osservare patti e rispettare regole che consentono li vivere insieme con gli altri, avere la coscienza dei propri doveri, dettata dal riconoscimento e dal rispetto dei diritti degli altri, tutelare e aver cura degli spazi e dei beni comuni, di pubblica proprietà e di pubblica utilità, al pari degli spazi e dei beni privati. Derivazione di civis e di civismo è, non a caso, la parola civiltà (dal latino civilitas), l’organizzazione della vita materiale, sociale e anche spirituale di un popolo misurata, in ultima istanza e nelle società moderne, proprio con li livello di osservanza e di rispetto del patto di convivenza civile, di coscienza dei doveri, di cura dei beni comuni.

Difficile, se si parte dalla significanza delle parole, comprendere che cosa c’entri tutto ciò con al formuletta magica del “civismo” tanto ni voga oggi nella politica, in particolare nei mesi che precedono le elezioni e nei giorni decisivi della scelta delle candidature. Difficile capire che cosa c’entri il civismo”, nell’accezione più alta del termine, con la confusa e indistinta proliferazione di liste e candidati civici nel solo tempo delle elezioni, che cosa c’entri l’alto senso dei propri doveri di cittadino con al formazione di alleanze politiche e di governo spurie, che cosa c’entri li civismo con l’insulsa e mai tanto deprecata cultura del trasformismo, del gattopardismo e del (loro parente stretto) qualunquismo. Ecco: giustificare e, persino, esaltare questi comportamenti e questi fenomeni con un uso truffaldino di una parola nobile come “civismo” rappresenta li senso e il vuoto dei nostri tempi, in cui abbiamo smarrito il valore e la pregnanza del linguaggio. E il cerchio si chiude se l’utilizzo improprio della parola “civismo” viene spesso innervata da uno slogan altrettanto vuoto e altrettanto truffaldino, peraltro dalla funesta eredità, che è quello dei profeti dell”andare oltre”, portatori della più trasformistica delle (in)culture (im)politiche che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, senza passato e senza futuro, perciò interamente proiettata sul presente, sulla gestione del potere e sulle alleanze qui ed ora, priva di progetto e di visione. Al netto delle spinte genuine e virtuose di chi sceglie di mettersi in gioco, di abbandonare il bordo campo e partecipare direttamente alla vita politica, “civismo” e “andare oltre” sono diventati ormai dei passepartout per transitare da uno schieramento all’altro, da un partito a un altro, da un gruppo a un altro, da una corrente a un’altra, per stare in una coalizione qui e in una coalizione alternativa a dieci chilometri di distanza. Questo falso “civismo” è l’epilogo inevitabile della farlocca contrapposizione tra una “società civile buona” e una “società politica cattiva” al centro, negli ultimi decenni, del racconto mediatico italiano. Un racconto fuorviante. Che tanti guasti ha già provocato con l’ascesa dei cosiddetti “portavoce dei cittadini”, dipendenti da centrali opache. E che tanti ne continuerà a provocare se non riscopriremo presto e bene la fondamentale importanza dei grandi soggetti collettivi, capaci di portare a sintesi interessi e preferenze individuali con visioni, sogni, progetti e aspettative comuni. Il falso “civismo”, insomma, non c’entra nulla con la rigenerazione ela rifondazione della politica, anzi ne è la negazione. Senza dimenticare che non pochi tra i cosiddetti “civici”, fallaci ideologi della sepolta demarcazione tra destra e sinistra, sono il peggio del peggio della vecchia politica. Ma sono anche vere alcune cose:

1. Che la crisi profonda dela democrazia dei partiti che ha attraversato il declino dela prima Repubblica e la parabola della seconda Repubblica, ha anche prodotto alcune esperienze di rigenerazione nei gruppi dirigenti, nel rapporto con l’etica pubblica e nel rispetto della volontà popolare nell’impegno a trasformare bisogni in diritti. Non moltissime esperienze e comunque non tali da far modificare l’ormai marginalissima fiducia dei cittadini italiani per i partiti (a lungo il 3% secondo la classifica annuale di Demos) che a fine del 2015 fa registrare un modesto 1% in più.

2. Che parte della spinta civica è costituita dal tentativo di dare espressione all’idea che la politica non debba speculare elettoralmente sui problemi della gente ma debba in un tempo ragionevole risolverli. Ora, spesso “risolvere” vuoi dire agire in un livello di connessioni territoriali e settoriali ni cui li micro-locale non e’ ambito di soluzioni possibili per moltissime questioni.

3. Che in alcuni contesti la dimensione di consensi dei civici e decisiva per fare maggioranza sia negli schieramenti di centrosinistra che negli schieramenti di centrodestra, così da rendere alcune di queste formazioni civiche (e qui conta la capacità di “far politica” e non solo di “rappresentare problemi”) così da diventare essi forti anche nell’imporre regole, appunto regole nel fare politica (finanziamenti, priorità, meritocrazia nelle nomine, eccetera).

Possibilità alternative
Questi cenni mettono in evidenza che il civismo politico – al netto di alcuni suoi limiti e difetti (contraffazione, riciclaggio di vecchia politica, iper-localismo che non fa percepire nessi causali con macro-fenomeni, eccetera) – ha diritto di esprimersi come alternativo alla democrazia dei partiti ma deve avere anche l’intelligenza di crescere ni condizioni di tallonamento critico e, come scrive da anni Pierre Rosanvallon, teorico del ruolo del controllo e della stesa protesta per salvare la democrazia, in condizioni di essere partecipe delle forme di valutazione e controllo interne alle istituzioni e quindi prodotte in condizioni sinergiche e comunque collaborative con la democrazia dei partiti, anche alo scopo di aiutarne al rigenerazione.

Naturalmente i casi locali complicano il discorso. E tirano la giacchetta talvolta verso soluzioni alternative, altre volte verso condizioni di cooperazione critica. Quello che è certo è che perdono la loro natura “civica” – in cui la politica è temporanea disponibilità a cedere competenze per sostenere al necessità di virtuose gestioni istituzionali – coloro che, non solo non hanno nessuna competenza da cedere, ma che scelgono poi modelli organizzativi, molto spesso autoritari, così da diventare anch’essi “partiti” con tutte el implicazioni che non concedono al doppia morale di assumere e criticare.

Renato Piscini