Angelino Rossi, il poeta della “Orvieto maledetta”

Ateo e gaudente eppure profondamente spirituale, innamorato della vita vissuta pericolosamente, Angelo Rossi, per tutti Angelino, ternano ma orvietanissimo, poeta maledetto, di tanto in tanto e al culmine di chissà quale misfatto chiedeva all’amico don Marcello di potersi confessare. E ogni volta, dal sacerdote che potrebbe aver ispirato a Fernandel l’interpretazione cinematografica del guareschiano don Camillo, otteneva la stessa risposta: ‘Certo, vediamoci lunedì mattina a Sant’Andrea, ma porta quattro panini con la porchetta e un bottiglione di bianco di quello buono, che se va bene passeremo almeno un’intera giornata a tentare di metterci d’accordo con Nostro Signore… ‘.

Ma era sui caffè che il Poeta dava il meglio del proprio estro di provocatore nato e dissacratore di ogni ordine costituito: infatti quando a turno in uno dei locali del centro storico chiedeva una tazzina, era solito, al cospetto del costernato barista, impugnare il cucchiaino della zuccheriera poggiata sul bancone e infilare nel caffè, una, due, tre, quattro… fino a undici porzioni di zucchero. L’altro davanti a lui, per quanto tollerante, vedeva abbattersi il proprio guadagno e a denti stretti dalla rabbia montante se ne usciva immancabilmente con un ‘Ma ti farà anche male, prima o poi’. E allora un Angelo più sorridente che mai chiudeva il caso con una lapidaria frase degna delle sue migliori poesie: ‘Guarda che mica lo giro, lo zucchero resta tutto nella tazzina, però a me piace così’.

Poeta lo è stato davvero, e di rango, fino a conquistarsi uno spazio rilevante nella cultura underground nazionale di fine anni Sessanta-primi Settanta, fino a recitare i propri componimenti in affollati teatri insieme al grande attore Gian Maria Volontè, fino a pubblicare libri di versi alternativi e dirompenti, fino a diventare una figura di spicco, quasi mitica, nel variopinto panorama degli allora ‘alternativi’ di piazza Navona. Dimostrò tutto il suo essere controcorrente quando, avendo ricevuto dallo zio defunto una cospicua eredità finanziaria e immobiliare tale da consentirgli una vita più che agiata senza dover muovere un dito, decise invece, per la prima volta nella propria esistenza, e soltanto in quella circostanza, di mettersi a lavorare. Ma, in linea con il personaggio, il suo non fu un lavoro canonico, un impiego, un posto fisso o autonomo che dir si voglia. Infatti il mestiere scelto fu quello di sperperatore professionista, faticando assai per tornare povero e riconquistare così quel gusto per l’esistenza, e quindi anche l’ispirazione poetica, che stava progressivamente perdendo tra gli agi della borghesia. Insomma, lavorava per rimetterci. Offriva a tutti, acquistava oggetti inutili e regalava senza motivo. Ed era davvero un bell’impegno. Ma nella Penisola bigotta di quelle stagioni, peraltro non dissimile dall’attuale, nella nazione dei cento campanili e delle mille comunelle da retrobottega o da sacrestia, nel provincialismo orvietano più stantìo, certamente ad essere meglio apprezzato come ‘tipo sociale’ era l’accumulatore di denaro, pure se illecito, piuttosto che il generoso per quanto strambo. Quest’ultimo infatti veniva considerato un irregolare e come tale temuto e contrastato.

E allora Angelino finì emarginato dentro gli angusti limiti delle becere definizioni popolari, divenendo lo sgangherato poeta delle trattorie, attrazione per il fugace tempo di risate senza seguito, macchietta di un’esistenza di confine verso cui i veri confinati, cioè i presunti integrati nei domicili di normalità tutte da dimostrare, rivolgevano sogghignanti attenzioni e sberleffi. Lui, il Poeta, non si scompose, avendo troppo lavoro da fare per non guadagnare nulla, anzi per dissipare: scialacquava per generosità, lasciando che i profittatori compissero i propri imbrogli senza vergogna, e non di rado aiutava concretamente i veri bisognosi, sostituendosi così ad enti e istituzioni, togate e talari, preposte all’uopo ma evidentemente distratte dai lussi della mondanità locale e dai piccoli poteri del ceto, del censo e perfino dell’incenso.

Angelino paradigma di una derelitta orvietanità pettegola purtroppo mai tramontata nel nostro scontato panorama di territorio defilato e sottomesso a interessi altrui. Mentre noi trascorrevamo il tempo a deriderlo, lui al di fuori della Rupe veniva giustamente valutato per quello che era: un intellettuale a tutto tondo, un visionario sociale e politico, un anticipatore dei tempi, un filosofo in versi capace di definizioni scioccanti riferite alla nuova casta dei ‘Sigoni’ e dei ‘Sigmori’, emergenti padroni del vapore che da lì in poi avrebbero sguazzato nell’Italietta delle Mani Pulite ma non troppo, perché poi scoprimmo che quelli che ci mettevano il sapone erano più sporchi degli altri. Non a caso Angelo Rossi, che nel frattempo aveva compiuto la propria missione ed era tornato povero in canna, venne a mancare nel 1990, agli albori del decennio degli equivoci, degli opportunismi e dei nani e delle ballerine assunte a destra e a manca nei ranghi più elevati della politica nazionale. Lui, il nostro Allen Ginsberg, aveva capito tutto almeno vent’anni prima.

Non è stato un santo e di certo neanche un esempio pienamente positivo, eppure ha lasciato una traccia significativa del proprio passaggio terreno. Quale? Quel suo sguardo perennemente rivolto agli emarginati, categoria che egli ha voluto conoscere dall’interno, calandosi in mezzo a loro pure quando le circostanze della vita l’avevano spinto verso altri lidi più comodi e conformisti. Nel frattempo nessuno lo ha ricordato e nessuno lo ricorderà. Non è aria, stante le capocce che attualmente imperano in città. Ma è stato bello che in anni più vicini a noi alcuni giovani sospinti da ‘Venti Ascensionali’ gli abbiano dedicato un’iniziativa di ricordo e recitazione delle sue poesie, facendoci riscoprire un messaggio più attuale che mai, poiché non è affatto cambiato il soggetto degli strali scagliati da Angelino il Poeta. Il che vuol dire che finanche nella triste e autoreferenziale OrvietNam dei giorni nostri potrà esserci, prima o poi, un futuro culturale lontano dai condizionamenti del politically correct tanto in voga.