Una domenica mattina seduto sugli scalini del Duomo….

Ultima domenica di febbraio.  Seduto sulle scale del Duomo.
Una fresca, bella mattinata d’inverno.  Nella piazza due bimbette dai capelli scuri e occhi chiari giocano con una palletta.  La rincorrono, la ributtano per aria, la riprendono…Gaie e spensierate. L’immagine della felicità.
Dal portone marroncino scuro, incastrato tra la cantina e l’hotel che si affaccia sulla piazza, un vecchietto viene fuori.  Si poggia a una stampella. Il viso segnato dall’età e da una leggera patina di stanchezza.  Passa davanti alle bambine che giocano con la palla, sempre più spensierate e sorridenti.  Immagine del ricambio generazionale che la vita, prima o poi, riserverà a tutti noi.
Valuto che il mio stato dell’essere è più vicino al simpatico vecchietto con le stampelle che alle due bimbette.  E un velo di malinconia mi attraversa la mente.  Ma è un attimo.
Guardo l’azzurro del cielo, il sole vistosamente colorato. Guardo il bar che mi sta di fronte. Già intravedo il gustoso caffè ristretto e il caldo cornetto che mi aspetta.  In piedi davanti alle scale tre persone del loco chiacchierano ad alta voce.  Uno dei tre parla del suo trascorso politico.  Parla di tempi in cui milita con la fiamma.  Poi dice che a un certo punto è stato veramente acuto nel saper cogliere l’onda e passare con la Lega.  Ora dice che la Lega non dà sicurezza o garanzie.  E dice di essere fiero del suo acume politico nell’aver saputo cavalcare di nuovo l’onda giusta e di essersi infilato nel gruppo locale di Fratelli d’Italia.  La seconda persona del ristretto gruppetto dice di apprezzare molto l’aver preso coscienza che con la sua avventura solitaria si era ritrovato in una palude.  Con fango, arbusti e liane al posto delle poltrone.  Esalta la sua saggezza nell’aver saputo capire e nell’attraversare il guado per buttarsi sul carro di chi si autoricandida a reggere l’Amministrazione cittadina per i prossimi anni.
La terza persona del gruppetto, che mi inquieta un pochino per l’alone che sprigiona. diviso a metà tra un che di tenebroso e un che di impositivo, gli fa notare che forse è stato un po’ frettolosa quella autocandidatura in pompa magna con quello sbandierare i difetti di questa Amministrazione ai quattro venti.  Accusandola di essere stata sonnambula per quattro anni e accusandola di aver portato Orvieto a questo brutto punto. Saggiamente afferma che adesso un po’ stona questo suo imbarcarsi con questa Amministrazione dopo tutte quelle frasi dette.  Cosi come stona questo suo definirla virtuosa quando solo tre mesi fa costituiva il peggior male possibile per gli orvietani
Tra me penso a quei tre individui, e deduco che costituiscono un rompicapo.  Non capisco bene quei tre con chi stavano fino a ieri e capisco ancora meno con chi stanno oggi.  E mi viene da ridere al pensare con chi staranno domani.  Quasi mi sembra di vederli, sempre persi nel loro rincorrere l’onda più loro conveniente.  Nuovo alone di malinconia nel pensare che con certi politicanti al governo locale si prospettano sempre tempi più bui per gli orvietani.
Cerco di osservarli con maggiore attenzione.  Poi osservo quel simpatico vecchietto che oramai, un po’a fatica, ha quasi terminato di salire i tre scalini che portano all’interno del bar.  Vorrei raggiungerlo per chiedergli di candidarsi.  Ci guadagnerebbe Orvieto e con lui candidato avrebbe un senso recarsi alle urne.
Poi osservo quelle due bambine che sprizzano serenità da ogni gesto.  E osservo i tre politicanti non distanti da me.  Ansiosi, con tic vari, anche se appena percettibili, nervosi anche nel loro gesticolare.
E mentre mi alzo per andarmi a sedere al mio solito tavolino del bar, provo per quei tre personaggi una infinita pena. Per loro e per la mia tanto amata Orvieto.




Angelino Rossi, il poeta della “Orvieto maledetta”

Ateo e gaudente eppure profondamente spirituale, innamorato della vita vissuta pericolosamente, Angelo Rossi, per tutti Angelino, ternano ma orvietanissimo, poeta maledetto, di tanto in tanto e al culmine di chissà quale misfatto chiedeva all’amico don Marcello di potersi confessare. E ogni volta, dal sacerdote che potrebbe aver ispirato a Fernandel l’interpretazione cinematografica del guareschiano don Camillo, otteneva la stessa risposta: ‘Certo, vediamoci lunedì mattina a Sant’Andrea, ma porta quattro panini con la porchetta e un bottiglione di bianco di quello buono, che se va bene passeremo almeno un’intera giornata a tentare di metterci d’accordo con Nostro Signore… ‘.

Ma era sui caffè che il Poeta dava il meglio del proprio estro di provocatore nato e dissacratore di ogni ordine costituito: infatti quando a turno in uno dei locali del centro storico chiedeva una tazzina, era solito, al cospetto del costernato barista, impugnare il cucchiaino della zuccheriera poggiata sul bancone e infilare nel caffè, una, due, tre, quattro… fino a undici porzioni di zucchero. L’altro davanti a lui, per quanto tollerante, vedeva abbattersi il proprio guadagno e a denti stretti dalla rabbia montante se ne usciva immancabilmente con un ‘Ma ti farà anche male, prima o poi’. E allora un Angelo più sorridente che mai chiudeva il caso con una lapidaria frase degna delle sue migliori poesie: ‘Guarda che mica lo giro, lo zucchero resta tutto nella tazzina, però a me piace così’.

Poeta lo è stato davvero, e di rango, fino a conquistarsi uno spazio rilevante nella cultura underground nazionale di fine anni Sessanta-primi Settanta, fino a recitare i propri componimenti in affollati teatri insieme al grande attore Gian Maria Volontè, fino a pubblicare libri di versi alternativi e dirompenti, fino a diventare una figura di spicco, quasi mitica, nel variopinto panorama degli allora ‘alternativi’ di piazza Navona. Dimostrò tutto il suo essere controcorrente quando, avendo ricevuto dallo zio defunto una cospicua eredità finanziaria e immobiliare tale da consentirgli una vita più che agiata senza dover muovere un dito, decise invece, per la prima volta nella propria esistenza, e soltanto in quella circostanza, di mettersi a lavorare. Ma, in linea con il personaggio, il suo non fu un lavoro canonico, un impiego, un posto fisso o autonomo che dir si voglia. Infatti il mestiere scelto fu quello di sperperatore professionista, faticando assai per tornare povero e riconquistare così quel gusto per l’esistenza, e quindi anche l’ispirazione poetica, che stava progressivamente perdendo tra gli agi della borghesia. Insomma, lavorava per rimetterci. Offriva a tutti, acquistava oggetti inutili e regalava senza motivo. Ed era davvero un bell’impegno. Ma nella Penisola bigotta di quelle stagioni, peraltro non dissimile dall’attuale, nella nazione dei cento campanili e delle mille comunelle da retrobottega o da sacrestia, nel provincialismo orvietano più stantìo, certamente ad essere meglio apprezzato come ‘tipo sociale’ era l’accumulatore di denaro, pure se illecito, piuttosto che il generoso per quanto strambo. Quest’ultimo infatti veniva considerato un irregolare e come tale temuto e contrastato.

E allora Angelino finì emarginato dentro gli angusti limiti delle becere definizioni popolari, divenendo lo sgangherato poeta delle trattorie, attrazione per il fugace tempo di risate senza seguito, macchietta di un’esistenza di confine verso cui i veri confinati, cioè i presunti integrati nei domicili di normalità tutte da dimostrare, rivolgevano sogghignanti attenzioni e sberleffi. Lui, il Poeta, non si scompose, avendo troppo lavoro da fare per non guadagnare nulla, anzi per dissipare: scialacquava per generosità, lasciando che i profittatori compissero i propri imbrogli senza vergogna, e non di rado aiutava concretamente i veri bisognosi, sostituendosi così ad enti e istituzioni, togate e talari, preposte all’uopo ma evidentemente distratte dai lussi della mondanità locale e dai piccoli poteri del ceto, del censo e perfino dell’incenso.

Angelino paradigma di una derelitta orvietanità pettegola purtroppo mai tramontata nel nostro scontato panorama di territorio defilato e sottomesso a interessi altrui. Mentre noi trascorrevamo il tempo a deriderlo, lui al di fuori della Rupe veniva giustamente valutato per quello che era: un intellettuale a tutto tondo, un visionario sociale e politico, un anticipatore dei tempi, un filosofo in versi capace di definizioni scioccanti riferite alla nuova casta dei ‘Sigoni’ e dei ‘Sigmori’, emergenti padroni del vapore che da lì in poi avrebbero sguazzato nell’Italietta delle Mani Pulite ma non troppo, perché poi scoprimmo che quelli che ci mettevano il sapone erano più sporchi degli altri. Non a caso Angelo Rossi, che nel frattempo aveva compiuto la propria missione ed era tornato povero in canna, venne a mancare nel 1990, agli albori del decennio degli equivoci, degli opportunismi e dei nani e delle ballerine assunte a destra e a manca nei ranghi più elevati della politica nazionale. Lui, il nostro Allen Ginsberg, aveva capito tutto almeno vent’anni prima.

Non è stato un santo e di certo neanche un esempio pienamente positivo, eppure ha lasciato una traccia significativa del proprio passaggio terreno. Quale? Quel suo sguardo perennemente rivolto agli emarginati, categoria che egli ha voluto conoscere dall’interno, calandosi in mezzo a loro pure quando le circostanze della vita l’avevano spinto verso altri lidi più comodi e conformisti. Nel frattempo nessuno lo ha ricordato e nessuno lo ricorderà. Non è aria, stante le capocce che attualmente imperano in città. Ma è stato bello che in anni più vicini a noi alcuni giovani sospinti da ‘Venti Ascensionali’ gli abbiano dedicato un’iniziativa di ricordo e recitazione delle sue poesie, facendoci riscoprire un messaggio più attuale che mai, poiché non è affatto cambiato il soggetto degli strali scagliati da Angelino il Poeta. Il che vuol dire che finanche nella triste e autoreferenziale OrvietNam dei giorni nostri potrà esserci, prima o poi, un futuro culturale lontano dai condizionamenti del politically correct tanto in voga.




Non solo per i bambini, il fantasiologo Gerardo Carrese e “il grande libro della fantasia”

Se dovessimo interrogarci su cosa sia la fantasia, empiricamente però, probabilmente prenderemmo una cantonata. Il 23 febbraio scorso, al Fanello, nella libreria Sovrappensieri Massimo Gerardo Carrese, fantasiologo, ha presentato il suo libro “Il grande libro della fantasia”. Che poi non è tanto per il libro in sé (bello, ma bello) ma più per il fatto che, in certi luoghi, accadono cose che non immagineresti possibili: piccoli vasi di pandora si aprono su questioni di cui, fino a quel momento, non avresti pensato di avere dubbi. Eh sì perchè, forse troppo spesso e a causa di una “cattiva educazione” il tema della fantasia viene relegato a una questione fanciullesca.

E invece arriva il Dott. Carrese da Caserta e ti scoperchia  un mondo: la Fantasia è un fatto scientifico, se ne parla da millenni, filosofi e illustri scienziati, da Aristotele a Munari, ne hanno sviscerato le possibilità e gli aspetti. Come se non bastasse, ti accorgi, fra le mura di una libreria, che le persone si trovano immerse ad interrogarsi su cosa sia la fantasia, e l’immaginazione e la creatività, come se, infatti, non ne avessero mai saputo nulla fino a quel momento. Volano due ore come fossero una manciata di minuti, piccole grandi rivelazioni avvengono. Esistono dei luoghi così, dove si incontrano le persone giuste  con chi ha l’esigenza di ascoltarle.

Esistono dei luoghi così, magari sotto casa, dove una pallina da basket può trasformarsi, scientificamente, “anche” in un’automobile.




Il finto candidato che presta la faccia alla vecchia sinistra senza credibilità e a una finta coalizione già divisa

La telenovela continua… La sinistra a Orvieto ha (probabilmente) un candidato sindaco.  O meglio, una faccia apparentemente rassicurante dietro alla quale nascondere, oltre ai soliti volti e metodi che conosciamo tutti, anche una finta coalizione, già divisa, fatta di simboli vuoti e talmente larga da mettere insieme tutto e il contrario di tutto. E con queste premesse raccontano di voler costruire “un’alternativa credibile” ma le parole, quelle scritte senza errori grammaticali, hanno un valore ed è evidente che anche l’obiettivo è finto.

Come possono essere credibili sui temi della sanità coloro che hanno causato i problemi, creando e gestendo per 50 anni un sistema di potere sui bisogni dei cittadini finito sulle principali pagine di cronaca politica italiane?

Come possono essere credibili sui temi dell’abitare coloro che hanno spogliato la città di tutti i servizi senza creare alcuna opportunità per i giovani?

Come possono essere credibili sui temi dello sviluppo economico coloro che ostacolano le imprese e le infrastrutture?

Come possono essere credibili sull’ex Piave coloro che hanno già preso in giro gli orvietani e svuotato ogni contenitore della città?

Come possono essere credibili sull’utilizzo dei fondi del Pnrr coloro che hanno perso finanziamenti e non hanno lasciato uno straccio di progetto alla città?

Come possono essere credibili sulla cura della città e del territorio coloro che l’hanno lasciata letteralmente a brandelli dimenticando ogni singola frazione?

Come possono essere credibili sull’ambiente coloro che hanno permesso qualsiasi ampliamento della discarica?

Come possono essere credibili sul turismo coloro che hanno annichilito e mortificato l’immagine di una città riducendola a un dormitorio?

Come possono essere credibili sulla cultura coloro che ne hanno fatto un sistema elitario e distante riservato agli “amici degli amici”?

Come possono essere credibili coloro che vi dicono “Orvieto alza la testa” dopo averla chinata per decenni di fronte alle logiche politiche e clientelari di partito?

Come può essere credibile chi si prende un impegno con la propria comunità e con importanti Enti che la rappresentano e li disattende senza esitazione?  

Ma soprattutto come può essere credibile chi si candida a rappresentare chi non è credibile semplicemente prestando la faccia a chi non può più permettersi di presentarla agli elettori? Come può essere credibile chi non avrà mai autonomia e già sa che dovrà rispondere alle solite vecchie logiche?

La credibilità non è una medicina da somministrare. Orvieto merita rispetto e saprà capire che chi pretende oggi di fornire una cura è in realtà chi ha causato la malattia. 

Orvieto merita di andare avanti con continuità e stabilità e con quella credibilità che il centrodestra e le compagini civiche, insieme forza di governo, hanno saputo dimostrare in questi cinque anni con i risultati e la concretezza di questa amministrazione.

Fratelli d’Italia – Lega – Forza Italia
Civitas Progetto Orvieto – Noi Moderati